Vuoi la ricetta per la gioia Cristiana? Te lo spiega San Filippo Neri
Sembra incredibile, ma è pur così che l’ingrediente di queste ricette per la gioia, è il disprezzo.
Generalmente il disprezzo è ritenuto un sentimento cattivo e che produce male, tristezza e quindi è contrario alla gioia.
Però del disprezzo, come di altre cose generalmente cattive, può avvenire come del veleno: il veleno uccide, ma in proporzione di medicina, con altri elementi, diventa salutare.
Ma veniamo alla storia delle ricette.
Un santo monaco e vescovo irlandese, San Malachia, O Margair, scriveva tante belle cose in prosa ed in poesia, in latino, s’intende, e tra le altre cose scrisse questo elogio del disprezzo.
1
Spernere mundum
disprezzare il mondo
2
Spernere nullum
non disprezzar nessuno
3
Spernere se ipsum
disprezzar se stesso
4
Spernere se sperni
disprezzare di essere disprezzato.
Le ricette di felicità, sono state inventate in ogni tempo da uomini che avevano tutt’altro interesse che quello della felicità, come, per esempio, il Conte di Cagliostro, che inventò l’elisir di lunga vita.
Ma queste ricette erano truffe, mentre le ricette del santo Vescovo irlandese sono infallibili come quasi… le definizioni del Papa.
Ma spieghiamo l’uso di queste ricette e come si debba prendere il medicinale che esse prescrivono. Cominciamo dal riconoscere quel mondo che, chi vuole stare allegro, deve disprezzare; il mondo è definito da certe espressioni che tutti dicono ‘e accettano e cioè «mondo infame – mondo pazzo – mondo cane – mondo traditore – mondo ladro – mondo porco… ».
Queste definizioni sono tutte vere, ma la più pittoresca mi pare quella: mondo porco.
Immaginiamo un trogolone grande grande: il trogolone è quel recipiente in muratura o di altro genere, nel quale si pone il cibo ai porci.
I porci vi buttano il muso dentro a gara e lavorano di bocca: quando il trogolone è molto ampio i porci vi saltano dentro.
Questo immenso trogolone, che abbiamo immaginato, è il mondo, e quegli animali sono gli uomini che vi si buttano per cercare i piaceri che il mondo offre, e si comportano come se essi dovessero stare sempre in questo mondo e litigano tra di loro e si azzannano, talvolta, nella gara di accaparrarsi una parte maggiore.
Ma la giostra finisce male: quel bene che questi emuli dei porci cercavano, non lo trovano, ma solo malanni, disgusti ed altre cose del genere.
Se uno non sa vincere il fascino, le attrattive del mondo il quale ha una grande forza sui sensi, addio pace, addio gioia e, spesso anche, addio salute dell’anima.
Ma non basta questo disprezzo del mondo, per non essere preso, nelle sue reti: non bisogna disprezzare nessuno in particolare, come prescrive la seconda ricetta.
Nessuno ha il diritto di disprezzare un altro, sia anche costui un cattivo.
Se tu disprezzi questo, disprezzi quell’altro, per questa o quella ragione anche fondata, perché tutti abbiamo dei difetti, tu litighi, perdi tempo, ti procuri nemici ed inizi una guerra: in questo modo è finita la gioia, è finita la pace.
Se vuoi disprezzare qualcuno, puoi disprezzare te stesso: anzi la terza ricetta dice appunto così.
Questo disprezzar se stesso è più facile, perché anche tu avrai i tuoi difetti ed avrai al tuo passivo certe cosette poco onorevoli, che gli altri non sanno, ma che tu conosci bene.
Noi generalmente crediamo di essere più di quello che siamo ed abbiamo delle pretese… Vogliamo essere calcolati, stimati, e creduti impeccabili: siamo superbi e siamo soli a non conoscere i nostri difetti ed a non vedere certi punti oscuri ben vergognosi.
E qui giova richiamare l’insegnamento di quel grande uomo, di cui abbiamo fatto cenno a principìo e cioè il favolista Esopo : egli disse che noi abbiamo sulla spalla, due bisacce con innanzi i difetti degli altri, che vediamo, e indietro i difetti nostri che non possiamo vedere.
Naturalmente poiché gli altri non sono del nostro parere, riguardo a noi e non hanno quel concetto grande che noi abbiamo di noi stessi e non vogliono dar soddisfazione alle nostre pretese, ecco che noi ci troviamo impigliati in una guerra.
La maggior parte dei nostri dispiaceri e guai avvengono, infatti, per le credute manchevolezze degli altri verso di noi.
In questa maniera addio gioia, pace, se non si osserva questa terza ricetta.
Disprezzare di essere disprezzato è la quarta ricetta: è l’ultimo dei quattro gradi di disprezzo ed è il disprezzo grande, sublime, glorioso.
Noi inghiottiamo tutto, ma l’essere disprezzati, no! Ripetiamo, la maggior parte dei nostri guai proviene dal fatto che ci riteniamo in diritto di essere considerati e tenuti in qualche onore.
Anche un ladro, se lo si chiama ladro, benché riconosciuto da tutti per quello che è, guai!…
Se egli può, vi chiama innanzi al giudice per farvi riconoscere che egli è un galantuomo.
II nostro tormento è dunque di non essere considerati e noi facciamo dipendere la nostra pace e la nostra gioia dal concetto che gli altri hanno di noi.
Pertanto, è una vigliaccheria, una stupidità quella di mettere la nostra pace la nostra gioia nella considerazione degli altri: è una forma di schiavitù.
Se siamo dotti, forse, perché gli altri ci credono ignoranti, perdiamo la nostra dottrina? Se siamo, invece, ignoranti, diventiamo sapienti perché gli altri ci credono sapienti?
Se noi ci riscattiamo dalla servitù del giudizio degli altri, noi abbiamo finita la cura e, nella libertà dei figlioli di Dio, abbiamo trovata la gioia.