La gioia dell’anima nell’uscire dal Purgatorio
L’anima, dopo tante pene sopportate con amore, essendo fuori del corpo e fuori del mondo, apprezza immensamente Dio, Sommo Bene, somma santità, somma bontà, ed è accolta da Dio con infinito amore, in un abbraccio di gioia indicibile. L’anima conquista la celeste Patria, il Paradiso, per tutta l’eternità.
Nessuna mente umana può immaginare o descrivere l’esultanza di quell’ora beata, nella quale l’anima, purificata dall’espiazione, se ne vola al Paradiso, pura come quando Dio la creò, e felice di sentirsi per sempre unita al Sommo suo bene, in un oceano di felicità e di pace.
Nessun paragone terreno è sufficiente a darcene un’idea.
L’esule che ritorna in Patria dopo lunghi anni di assenza, che rivede la terra nativa, e, abbraccia, pieno di gioia le persone carissime nel riacquistare la libertà e la pace; l’infermo che, risanato completamente, rivede gli ambienti della sua casa, e riprende la serenità della vita attiva, non possono darci neppure una pallida idea del ritorno glorioso e festante dell’anima a Dio, e dell’eterna gioia della vita che non può perdersi più. Tentiamo di farcene una pallida idea, per spingerci a vivere santamente, per accogliere le pene della vita in perfetta unione alla Divina Volontà e, per aumentare i nostri meriti, usufruendo di tutte le ricchezze che Gesù ci dona nella Chiesa.
La stessa intensità delle pene del Purgatorio ci può far supporre pallidamente l’intensità della gioia di un’anima che, liberata, entra nel Paradiso, perché ogni gioia terrena è misurata dal dolore. Non si prova neppure la soddisfazione di un bicchiere di acqua fredda, se non si è assetati, la sazietà di un cibo gustoso, se non si è affamati; la gioia di un tranquillo riposo, se non si è stanchi.
L’anima, dunque, che è in perenne e tormentosa attesa della felicità, con un amore verso Dio che cresce e s’intensifica a misura che essa è purificata, giunta al termine della purificazione, all’invito amoroso di Dio, si slancia in Lui, ed è tutta un canto di riconoscenza, per le medesime pene che ha subite, più che non abbia riconoscenza l’infermo risanato, per le pene inflettigli dal chirurgo.